In una recente ordinanza (la n. 35581 del 19 novembre 2021), la Suprema Corte si è pronunciata sul caso di un lavoratore licenziato per avere prelevato alcune bottiglie di birra, del cous cous e un prodotto da forno dal supermercato dove lavorava, consumandoli poi in loco.
La pronuncia della Corte di Cassazione trae origine dal ricorso proposto da una società, operante nella grande distribuzione organizzata, per ottenere la cassazione della sentenza con cui la Corte d’Appello aveva ritenuto la illegittimità del licenziamento di un dipendente, ai sensi dell’art. 18, comma 5, della L. n. 300/1970 (come modificato dalla L. n. 92 del 2012), dichiarando, per l’effetto, risolto il rapporto di lavoro intercorso fra le parti e condannando l’azienda a pagamento, in favore del lavoratore, di una indennità risarcitoria onnicomprensiva in misura pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Come anticipato, il licenziamento era stato intimato a un dipendente del supermercato, colpevole di aver prelevato alcune bottiglie di birra, del cous cous e un prodotto da forno (di valore pari a circa otto euro), poi consumati in loco.
Secondo la Corte d’Appello, innegabilmente la predetta condotta configurava astrattamente inadempimento degli obblighi posti a carico del dipendente e, pertanto, costituiva un atteggiamento antigiuridico passibile di sanzione disciplinare, in particolare alla luce delle norme disciplinari affisse in bacheca, che vietavano di consumare alimenti o alcolici e di appropriarsi di beni aziendali anche se solo per consumarli sul luogo di lavoro. Tuttavia, la Corte territoriale aveva escluso la proporzionalità della sanzione espulsiva, ai sensi del comma 5 dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Avverso la decisione della Corte d’Appello proponeva, quindi, ricorso per cassazione la società, deducendo, in particolare, la violazione e falsa applicazione della L. n. 300/1970, art. 18, comma 5, in relazione all’art. 2119 cod. civ., con riguardo al ritenuto difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva irrogata; e in relazione all’art. 2118 cod. civ., per aver ritenuto, una volta esclusa la proporzionalità della sanzione, l’insussistenza degli estremi del giustificato motivo soggettivo.
La Corte di Cassazione, innanzitutto, ha chiarito che non ricorrevano gli estremi per la sospensione necessaria del giudizio in attesa della definizione del procedimento penale avviato nei confronti del lavoratore per gli stessi fatti (richiesta dall’azienda ricorrente), stante l’autonomia dei due giudizi.
Ciò premesso, il ricorso dell’azienda è stato giudicato infondato.
Invero, la Cassazione ha evidenziato che la ricostruzione della vicenda storica effettuata dai giudici del merito, non sconfinando in un risultato irragionevole, non era sindacabile in sede di legittimità e che “spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo”.
Nel caso di specie, la Corte d’Appello, proprio alla luce del complessivo atteggiarsi della vicenda, valutata in fatto, aveva ritenuto l’insussistenza non solo di una irrimediabile lesione del vincolo fiduciario, tale da legittimare il recesso per giusta causa, ma anche di un inadempimento così grave da configurare un giustificato motivo soggettivo di licenziamento; e tale valutazione, immune da vizi logici, non poteva essere censurata in sede di legittimità.
Il ricorso dell’azienda, pertanto, è stato respinto.
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